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Nulla di eroico, basta volerlo

  • Immagine del redattore: Alessio Arriu
    Alessio Arriu
  • 22 nov 2021
  • Tempo di lettura: 5 min

La conferenza

All’EXMA di Cagliari, il 15 ottobre scorso, è stato organizzato il primo evento della sede cagliaritana di Mediterranea, organizzazione non governativa che si occupa principalmente del salvataggio di profughi nel mar Mediterraneo. A presentare il progetto due volontarie dell’equipaggio di terra Marta Corriga e Adriana Cappai, insieme a un volontario imbarcato sulla Alex in zona SAR libica, Alessandro Fanari, e allo scrittore Ibrahima Lo, che ha raccontato la sua esperienza nei lager libici e la traversata nel Mediterraneo in un libro intitolato Pane e acqua.


Ibrahima è un ragazzo minuto e a primo impatto apparentemente molto timido, ma appena inizia a parlare dimostra il contrario. Sente il bisogno di raccontare quello che ha vissuto per dare voce a coloro che hanno sperimentato la sua stessa tragedia. È per questo, oltre che per abbattere la superficialità con cui vengono raccontati gli sbarchi dei migranti sia dalla politica che dai media, che ha deciso di scrivere il suo libro.


“Un giorno, dopo aver letto il libro di un ragazzo afgano che raccontava il suo viaggio per arrivare in Italia attraverso la rotta balcanica, mi chiesi “Cosa potrei fare?”. Quel libro mi diede la spinta per raccontare la mia storia. Perché non è soltanto la storia di Ibrahima, è anche la storia di tanti che hanno vissuto la mia stessa esperienza e che purtroppo non possono più parlare. Non è stato facile farlo, anzi è stata veramente dura [...] nel momento in cui scrivi hai un dolore che butti fuori, è un qualcosa che ricordi di nuovo e questo mi faceva soffrire, ma allo stesso tempo dovevo continuare a scrivere.


È la questione relativa alla Guardia Costiera libica ad essere affrontata per prima. Secondo Ibrahima affermare che questa salvi le vite è una narrazione sbagliata, perché il loro vero compito è quello di sparare ai gommoni dei migranti, catturare questi ultimi e riportarli nei lager libici. Alcuni vengono uccisi, altri continuano ad essere sfruttati come ostaggi per farsi inviare soldi dai loro parenti. Ed è paradossale per il ragazzo senegalese che l’Italia, da Minniti a Mario Draghi in particolare, finanzi e fornisca motovedette ai libici per “salvare” la vita alle persone in mare.


“Non dirò mai che sono contento del lavoro che la guardia costiera libica sta facendo. Sono loro che mi hanno venduto, sono loro che mi hanno imprigionato per un mese e venti giorni, dove mangiavo solo un pezzo di pane e potevo bere solo un po' d’acqua.”


Ibrahima Lo

È durante la parte dedicata alle carceri libiche che il racconto di Ibrahima si fa più denso di emozioni, andando a ritroso fino al suo Senegal, da cui è partito il suo viaggio.


“Un giorno due nigeriani e un gambiano cercarono di escogitare la fuga dalla prigione. Li fregò la lingua inglese perché le guardie la capivano. Così entrarono nella cella e spararono ai tre ragazzi davanti ai nostri occhi: era la prima volta che vedevo morire qualcuno. Io cominciai a piangere e pensai che avrebbero ucciso anche me; per proteggermi dalle botte usai la mia mano ed è così che mi sono fatto la cicatrice che vedete, lasciata dal calcio dei fucili; non potevo però andare all’ospedale nonostante stessi perdendo tanto sangue, ma fortunatamente un mio amico mi diede una maglietta per coprire la ferita e riuscii a sopravvivere.”


Prima del carcere, per poter arrivare in Libia, Ibrahima ha attraversato il Sahara. Lo ha fatto con un gruppo di nigeriani che ha dovuto pagare per attraversare in sicurezza la Nigeria. Il poco cibo fornito dai trafficanti durante tutto il viaggio andava razionato. Un pasto che consisteva solamente in cous cous, latte in polvere e acqua. Acqua che durante il viaggio finì presto: fu così che soltanto grazie ad un uomo che regalò loro un bidone di latte nel mezzo del viaggio riuscirono a sopravvivere. In quei momenti però il più delle volte il senso di collettività viene soppresso dall'istinto di sopravvivenza. Ibrahima, essendo il più piccolo, non riusciva ad ottenere il cibo per sfamarsi. Attraversare il deserto non è semplice, soprattutto a causa dei briganti Tuareg che derubano i pick up sui quali viaggiano i migranti, per poi rapirli e venderli come schiavi. Inoltre vi è purtroppo buona parte dell’esercito nigeriano, finanziato dall’Europa, che blocca i migranti prima che arrivino in Libia.


“Se ci pensate è paradossale perché dopo aver sfruttato l’Africa, causando disoccupazione e povertà, L’Europa paga una cospicua somma di denari per non far scappare chi ha danneggiato. Vogliono chiudere i porti agli esseri umani, ma non alle risorse che il continente africano può offrirgli.”


Anche per questo Lo ha raccontato di come persista ancora oggi lo sfruttamento delle coste senegalesi, ricche di pesce, da parte di varie multinazionali, a discapito dei piccoli pescatori di zona. Pescatori che spesso, a causa del mancato lavoro, cercano di emigrare alle Canarie, poco distanti dal Senegal, ma pochi riescono ad arrivarci.


Il ruolo dei volontari in mare

L’ultima parte della conferenza è stata lasciata ai racconti e alle parole dei volontari. Alessandro Fanari, volontario infermiere appartenente all’equipaggio di mare della nave Alex nella zona SAR (zona di ricerca e soccorso, ndr) libica, ha raccontato di come le ONG vengano ostacolate nel loro lavoro dalla Guardia Costiera italiana. È Roma a richiedere il loro intervento il meno possibile, per favorire così l’azione della sedicente Guardia Costiera libica nel recupero dei migranti e nella loro ricollocazione nei "centri di detenzione". Alessandro è un attivista rodato che prima di imbarcarsi con Mediterranea ha collaborato con altre ONG, operando da Ventimiglia alla parte serba della rotta balcanica.


“A Ventimiglia ho incontrato migranti che provavano per la settima volta ad oltrepassare il confine italiano. Una volta finiti i soldi o ti indebiti con un passeur o te la fai a piedi passando per Mentone, dove davanti a una biforcazione rischi letteralmente la vita. E questi non sono i libici cattivi, questi siamo noi. La situazione è identica anche in Serbia, con tanto di polizia ungherese al confine che ruba scarpe e guanti ai migranti, con una temperatura che tocca anche i -20 / -30 gradi.”


Alessandro ci tiene a rimarcare che i colpevoli della scadente gestione umanitaria siamo anche noi italiani, non soltanto i libici, che in questo Mediterrano che pullula di corpi senza vita non sono altro che al servizio di un'Europa che non perde occasione di lavarsi le mani di fronte a questa tragedia. I volontari di Mediterranea non ci tengono ad essere definiti degli eroi. Per loro, ciò che fanno è semplicemente un contributo alla società affinché si risolvano le ingiustizie che affliggono chi sta peggio di noi. Nonostante critiche ed accuse infondate che però non hanno il potere di scalfire la loro voglia di creare un impatto positivo nella realtà in cui viviamo.


“È voglia di aiutare, nulla di eroico, basta volerlo”

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