Dall'Africa all'Afghanistan: quando accogliere è una scelta di vita
- Alessio Arriu e Piero Grimaldi
- 12 ott 2021
- Tempo di lettura: 5 min

In copertina: Biagio Atzori, sindaco di Sini e direttore del Centro di prima accoglienza del paese. Il suo è il terzo mandato da sindaco.
(foto di Matteo Pisu)
-Si è mai pentito di questa scelta?
-No, assolutamente. È stata una scelta maturata in poco tempo, che ci ha arricchito tantissimo da molti punti di vista, ci ha fatto incontrare ragazzi di diverse nazionalità, le loro problematiche, abbiamo dovuto capire anche i loro momenti di disagio che…mi dovete scusare.
Sei anni fa Biagio Atzori decideva di cambiare vita. Non solo la sua, ma anche quella della sua famiglia e della comunità di Sini, piccolo centro di cui è sindaco nuovamente dal 2019, dopo esserlo stato dal 2000 al 2005 e dal 2010 al 2015. Da imprenditore agricolo a direttore di uno dei pochi Centri di Prima Accoglienza in Sardegna, nel tentativo di dare speranza a persone arrivate da lontano e di creare un connubio tra integrazione e vita sociale del piccolo paese della Marmilla. Una scelta che si rinnova ogni volta che le camere della cooperativa Imparis accolgono qualcuno che ha una vita da ricostruire. È successo anche con le quattro famiglie afghane arrivate poco meno di un mese fa. Alla domanda, i ricordi pervadono la risposta e l’emozione non si può fermare.
Com’è nata l’idea di trasformare la struttura in un centro di accoglienza e in cosa gli ha cambiato la vita?
"L’esperienza è iniziata nel 2015. In quel periodo c’era un'emergenza di posti letto causata dall’aumento dei flussi migratori provenienti dal nord Africa. La prefettura ci chiese se vi fosse la possibilità di utilizzare il nostro agriturismo per l’accoglienza dei migranti e noi demmo subito la disponibilità, anche perché era un periodo nel quale gli agriturismi sardi stavano passando un momento di crisi e salvo qualche fine settimana, difficilmente rientravamo coi costi quindi decidemmo di cambiare totalmente percorso lavorativo".
Cos’è cambiato con i decreti sicurezza nelle politiche di accoglienza?
"Da quel momento è cambiato tutto quello che di positivo è stato fatto a livello nazionale. Si stava creando un percorso di integrazione attraverso gli SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), ponendo i rifugiati in condizione di essere autonomi nonostante venissero ugualmente seguiti da cooperative o associazioni che supportavano il loro inserimento nel mondo del lavoro, percorsi di formazione e via dicendo. I decreti hanno messo fine agli SPRAR, l’importo che veniva dato ai centri di accoglienza come sostegno al lavoro è diminuito da 34€ a 26€, facendo quindi chiudere molti centri che non riuscivano a sostenere un lavoro del genere. Da un punto di vista economico molti alberghi e agriturismi che avevano trovato in questo nuovo lavoro una rinascita hanno dovuto chiudere.
Ma la cosa che dispiace è che la politica non ha saputo sfruttare l’opportunità di scambio interculturale che poteva offrire una situazione del genere, impedendo ai ragazzi italiani di conoscere e di confrontarsi con altre realtà distanti dalle proprie".
È facile l’inserimento dei rifugiati nell’ambito lavorativo?
"Alcuni ragazzi li abbiamo inseriti in una nostra azienda di agricoltura biologica e grazie al contratto di lavoro hanno ottenuto il passaporto umanitario. Prima dei decreti sicurezza, il rifugiato che otteneva un contratto di lavoro otteneva questo tipo documento che gli garantiva due anni di soggiorno.
Molti ragazzi vanno accompagnati nell’inserimento nel mondo del lavoro anche perché non hanno una cultura del lavoro nonostante siano competenti. Tuttavia, molti si stanno inserendo nel settore pastorale perché manca manodopera, qua ad esempio vi sono 4 ragazzi che dal mese di luglio hanno iniziato a lavorare a Isili in orticoltura con un contratto regolare".
Come si potrebbe migliorare il sistema di accoglienza nel territorio sardo?
"Sono rimasti pochissimi centri di accoglienza e se le condizioni rimarranno allo stato attuale non so quanti parteciperanno ai bandi delle prefetture. Se uno vuole avere degli utili, a queste condizioni è molto più difficile considerando anche il periodo di crisi durante il Covid. Inoltre, sono i comuni che in primo luogo devono partecipare ai bandi per recuperare gli appartamenti o strutture nei centri storici per fini di accoglienza. Sarebbe un modo per risolvere il problema dello spopolamento, nonostante non tutti abbiano la volontà di rimanere nel centro dove vengono portati".
Durante questi sei anni c’è stato un momento particolarmente significativo?
"Il periodo in cui ci son stati più rifugiati, 45 ragazzi di diversa nazionalità. Essere riusciti a vivere con loro rispettando reciprocamente le tradizioni di culture diverse, in un paese di 500 abitanti, senza causare problemi non è cosa da poco. Molti di loro si sono integrati attraverso il calcio a tal punto che per cinque anni sono stati la parte più importante della squadra del paese.
Non è stato semplice gestire le problematiche dei rifugiati ma del resto le difficoltà nascono sempre, anche nelle famiglie normali, figuriamoci tra 45 persone di diverse nazioni. Devo però dire che grossi problemi non ne abbiamo mai avuto e questo è grazie a loro e alla comunità di Sini che ha accettato i ragazzi in maniera positiva. Fa piacere quando alcuni ragazzi rimangono in contatto con noi anche dopo essere andati via dal centro e questo è un segno del fatto che sono stati accolti bene. Ora continueremo su questa strada con la nuova esperienza dei profughi afghani. Dai ragazzi si passa a lavorare con neonati, bambini, famiglie intere che abitano sotto lo stesso tetto".
L’accoglienza delle famiglie afghane è stata diversa nelle modalità?
"Le famiglie sono arrivate il 20 agosto a Roma dove hanno passato il periodo di quarantena cautelare secondo le norme anti-Covid. Dopodiché, è stato spiegato come funzionava lo smistamento dei rifugiati sul suolo italiano, facendo capire che sarebbero potuti finire sia in una grande città che in piccolo paese. Infine, dopo le firme burocratiche sono arrivati a Cagliari via nave e sono stati smistati per i vari centri di accoglienza del territorio".

In foto: Biagio Atzori risponde all’intervista sotto lo sguardo curioso di una delle bambine ospiti del centro.
(foto Victoria Atzori)
E nei fatti?
"Non tutti raccontano cos’hanno vissuto prima di arrivare in Italia, è difficile che si aprano subito. Con gli afgani è diverso. Con i rifugiati africani è più complicato perché non si fidano, anche per non avere ritorsioni nei confronti della famiglia che è ancora a casa. Alcuni parlano del viaggio in Libia e del fatto che sono stati costretti a lavorare per ottenere in cambio il viaggio verso l’Europa, un viaggio che dura tanto, soprattutto nella prima parte. Anche nei tempi burocratici ci sono state delle differenze: gli afghani sono stati già quasi tutti ascoltati dalla commissione della prefettura che decide sui casi relativi alle richieste d’asilo, mentre altre volte ci sono stati casi in cui si sono dovuti aspettare anche cinque anni".
Perché, secondo lei, è importante fare questo lavoro?
"Il mio obiettivo è quello di cercare di dare ai rifugiati un’opportunità di sentirsi come se fossero a casa loro attraverso l'integrazione. Penso che molti ragazzi potrebbero dare un contributo al paese e ai ragazzi italiani, stimolando il confronto tra diverse culture. Noi cerchiamo di fare quello che possiamo, con umiltà si può fare tutto, piano piano si costruisce”.
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