Sedda: "Sa Die de sa Sardigna diventi festa nazionale dei sardi"
- Paolo Falqui
- 28 apr 2023
- Tempo di lettura: 15 min

In occasione de Sa Die de sa Sardigna, parliamo della giornata dedicata all’isola ma anche di indipendentismo e identità sarda con Franciscu Sedda, docente universitario e leader di A Innantis!, associazione politico-culturale sarda.
Sedda, parliamo di Sa Die de Sa Sardigna a 30 anni dalla sua istituzione. Cosa rappresenta questo giorno?
"Sa Die nasce da un’esigenza sincera, quella di dare una festa nazionale ai sardi. Il punto, a distanza di 30 anni, è che non sempre quest’intenzione è stata rispettata. Spesso è stata contestata, un po' da chi non ne vedeva l’utilità, un po’ da chi non ne capiva il senso e un po' da chi la temeva e la contrastava. Inoltre, più in generale, è stata spesso piegata alle esigenze della parte politica al governo, politica che quasi sempre ha agito senza una reale coscienza di Nazione Sarda e dunque non poteva né voleva trattarla come una festa nazionale. Oggi sono più spesso associazioni culturali e movimenti giovanili che agiscono fuori dall’ambito strettamente politico a valorizzarla meglio. Anche A innantis! cerca in questo di fare la sua parte. Va anche detto che non è facile trasmettere il senso nazionale agli eventi di Sa Die se non sono ben spiegati e contestualizzati all’interno del triennio rivoluzionario sardo, che va dal 1793 al 1796, e della storia settecentesca della Sardegna. La bassa coscienza natzionale dei sardi (scritto con la grafia sarda tz per distinguerlo dal sentimento di “italianità”) e la complessità degli eventi porta infatti a travisarne il significato: sa Die diventa una pura e semplice sollevazione contro i piemontesi, come se i sardi in un colpo di testa momentaneo se la prendessero contro il potere, ma senza che questo trasmetta una visione più generale, complessa, propositiva. Dal mio punto di vista è dunque importante far capire nel dettaglio la Storia di quegli anni nella sua portata più generale, per evitare che rimanga una pura giornata di vacanza, o una festa di popolo senza altri significati politici. C’è bisogno che sia effettivamente una festa nazionale, posto che si può comunque discutere sul fatto se come festa nazionale dei sardi questa sia l’unica e più significativa ricorrenza a nostra disposizione".
Sa Die de Sa Sardigna celebra il giorno in cui furono cacciati i piemontesi, che poi furono gli stessi che unificarono lo Stato Italiano. Anche in questo senso secondo lei è vista in certi ambienti politici come pericolosa?
"Secondo me molti pensano sia stato semplicemente un momento di rabbia per l’esclusione dei sardi dalla vita pubblica e decisionale del Regno di Sardegna, un momento di orgoglio contro un trattamento umiliante da parte della classe dirigente sabauda: questo, bisogna dirlo, è anche quello che pensava una parte della classe dirigente sarda dell’epoca, che non voleva mettere in discussione la sovranità del re ma chiedere più spazio di potere. Questa è l’interpretazione che va per la maggiore nella classe dirigente attuale, l’interpretazione autonomista, che non vuole per davvero mettere in discussione i rapporti con l’Italia e che quando si spinge a parlare per quei fatti di “nazione sarda” non intende che i sardi si sentissero per davvero tali. Quantomeno non come si intende l’idea di nazione oggi. Invece c’era un’altra parte di coloro che si sollevarono, un’altra parte della classe dirigente sarda, che intendeva la Sardegna proprio come una nazione. Una nazione al pari di quella francese, che era ovviamente il riferimento di tutta Europa. Una nazione distinta da quella nazione italiana che esisteva culturalmente benché fosse politicamente frammentata. C’era dunque chi con più chiarezza d’intenti voleva una Repubblica Sarda indipendente, da farsi con l’aiuto della Francia. E queste persone saranno anche quelle che con più forza e spirito di sacrificio si schiereranno affianco del popolo e delle comunità nella richiesta dell’abolizione del feudalesimo, per un’emancipazione sociale profonda della nostra gente. In mezzo c’è l’uomo simbolo della rivoluzione, Giovanni Maria Angioy, che per il suo ruolo assume pubblicamente delle posizioni ambivalenti, benché dalle fonti emerga ormai abbastanza chiaramente la sua maggiore vicinanza alla parte più avanzata, quella dei novatori: lui stesso del resto, una volta esiliato in Francia, dichiarerà apertamente che il suo obiettivo era una repubblica indipendente sfuggita per questioni geopolitiche e per coincidenze sfortunate, come la pace firmata dalla Francia con i Savoia.
Si può quindi dare una lettura dei fatti moderata, conservatrice ed elitista, che equipara l’idea di nazione sarda dell’epoca al concetto odierno di specialità, ritenendo quindi che non fosse in gioco il tema della sovranità ma solo la contestazione della gestione del potere da parte dei delegati del legittimo sovrano sabaudo e dunque una rivendicazione di “privilegi” per la classe dirigente sarda. Oppure si può guardare a quella seconda metà del Settecento come a un complesso processo di risveglio di una coscienza nazionale sarda, che passa attraverso le forme della cultura popolare (la lingua, la poesia, il ballo), si salda via via con il malcontento popolare per le condizioni di vita vessatorie imposte dai feudatari, e che, incrociandosi precocemente con gli eventi rivoluzionari francesi, pone la nazione sarda nella corrente della storia europea, davanti ad una possibile autodeterminazione politica e sociale, un'affermazione di sovranità, che trova concretizzazione, per le punte più avanzate e generose di quel sommovimento, nella formazione di una Repubblica di Sardegna. Come dice L’Achille della sarda liberazione (manoscritto del 1976, attribuito a Michele Obino, manifesto politico di una nuova costituzione politica sarda, ndr), si trattava di fare come le colonie americane rispetto all’Inghilterra. Ricordare questa storia ovviamente spaventa, tanto più in una Sardegna dove l’idea indipendentista è minoritaria, dove l’idea di nazione sarda è stata sradicata a causa di una serie di traumi storici (compresa la repressione della Sarda Rivoluzione), dove domina una politica rivendicativa senza cuore e testa, dove persino il sentimento di molti, anche quando viene chiamato “indipendentista”, è più una sfiducia generalizzata verso le istituzioni che non una presa di posizione matura e propositiva, capace di creare un Paese, come in Catalogna, Scozia, Corsica o Paesi Baschi. Insomma, invece di riprodurre l’idea di una Sardegna arrabbiata ma fedele ad una sovranità esterna, bisognerebbe ricordare i patrioti sardi che finirono in esilio o morirono dicendo “Libertà Uguaglianza. Per il Popolo e la Nazione Sarda”.
Quindi ci sarebbe un conflitto tra non avere un’idea di nazione sarda e celebrare Sa Die?
"Come ho detto, visto che il significato politico di quegli eventi storici è confuso, o è reso volutamente confuso, si può celebrare Sa Die dandogli un senso sostanzialmente autonomista-unionista. Basti pensare che già all’indomani di quei fatti venne fatta passare l’idea che la rivoluzione era strettamente contro i piemontesi, quasi fosse una questione “etnica”. L’antipiemontesismo fu alla base della Perfetta Fusione del 1848: bisognava gettarsi sul progetto italiano, dissero alcuni esponenti dell’élite sarda, per scappare al dominio piemontese. Diventa dunque facile raccontarsi che la Sardegna, ieri come oggi, ce l’ha con i continentali o con qualche governo poco amichevole ma non mette in discussione la sua fedeltà all’Italia né spinge per davvero su un processo di autodeterminazione nazionale. Ci ritroviamo dunque una festa nazionale che non riesce a sviluppare una riflessione aperta, laica, produttiva: una festa dove non dico che ci debba essere una sola narrazione apertamente indipendentista, ma che almeno riconosca che la Sarda Rivoluzione ebbe tante facce e quella indipendentista non solo fu una di queste ma fu quella che più profondamente e sinceramente cercò di assecondare il desiderio di emancipazione sociale dei sardi. Certo il fatto che questa festa non sia stata valorizzata e in certi momenti sia stata distorta o abbandonata, fa capire che in generale “festeggiare sé stessi” mette timore in una parte della classe politica sarda. Ma ripeto, a volte è più efficace l’ambiguità per tenere buoni tutti: dunque, via il riferimento alla festa nazionale, resta l’idea di una festa di popolo, con tanto orgoglio e poca rivoluzione, con tanta sardità strumentale e poca coscienza nazionale".
Cosa vuol dire per Lei essere indipendentista e portare avanti un progetto indipendentista?
"Significa credere nella costituzione di una Repubblica di Sardegna politicamente libera, economicamente prospera, socialmente giusta, moralmente degna. E significa impegnarsi per questo obiettivo attraverso un’azione non violenta, propositiva, che sia per qualcosa e non contro qualcuno, che miri a costruire e non a distruggere, che miri a unire a sommare ma su basi chiare, sfuggendo tanto alla trappola del purismo che dell’opportunismo. I miei 25 anni di impegno sono un continuo esperimento d’indipendentismo. Un tentativo di creare qualcosa di ben fatto, che possa durare e vincere proprio perché ha delle fondamenta morali, ideali, organizzate, progettuali solide. Questo ovviamente è difficilissimo, e per questo è capitato che gli esperimenti finora abbiano funzionato solo in parte. Ma io credo che ci siano semi piantati in profondità e su terreni nuovi che daranno frutti importanti. Del resto, lo ripeto, non è facile: in Sardegna quasi nessuno nasce indipendentista, non se l’indipendentismo è l’impegno non a lamentarsi di ciò che non va, del potere, dei sardi, ma un progetto per far crescere e unire i sardi per costituire un nostro Stato che funzioni, che garantisca una vita migliore a tutte e tutti, che entri in Europa e nel Mondo da protagonista. In Sardegna l’indipendentismo è debole perché di indipendentisti che sappiano argomentare e tradurre in pratica queste posizioni ce ne sono pochi. Ma questo non ci deve spaventare. Indipendentisti si diventa. Io ad esempio ho avuto la fortuna di vedere le mie motivazioni maturare da un percorso famigliare, grazie a mio padre che mi ha passato quel sentimento indipendentista e una conoscenza appassionata della nostra storia natzionale. Anche io però ho dovuto metterci del mio. Nel tempo quel sentimento è maturato, ho fatto i conti con molti nodi storici irrisolti e, vedendo che mancava una progettualità indipendentista chiara, con fondamenta storiche solide, coerenti, e con la capacità di parlare a tutta la società sarda, a partire dalla fine degli anni Novanta, mi sono lanciato nella creazione di un indipendentismo nuovo. Ed è quello che sto ancora facendo e continuerò a fare con A innantis!.
Vedendo anche i problemi riscontrati in altri Paesi con i referendum di Scozia e Catalogna, l’indipendenza sarda è veramente fattibile dal punto di vista economico, sociale e di relazioni internazionali?
"Certo non è facile, non è un percorso che si fa in un giorno e probabilmente non è neanche auspicabile che si faccia tutto subito. Il fatto che non sia facile non deve farci dimenticare che però è giusto e necessario. Parlando di indipendenza non si parla solo dell’obiettivo finale ma anche del percorso e quello rimane necessario al di là del fine ultimo che i sardi riprendano coscienza di nazione, che ciò ci spinga a percorsi di emancipazione, responsabilizzazione e impegno civile che sono l’unico vero antidoto alla china odierna, ovvero quella di una terra sempre più spopolata, impoverita, disillusa. Andare verso l’indipendenza significa avere un’idea forte e collettiva, dove si massimizza la cooperazione e la solidarietà, evitando il conflitto fra comunità, fra potentati più o meno trasparenti. Una conflittualità che ci indebolisce, minaccia la nostra esistenza, come un corpo i cui organi sono scollegati e non funzionano più insieme. Quindi più che della fattibilità dell’indipendenza da qui ai prossimi anni credo si debba riflettere sulla necessità del processo indipendentista: ci si lamenta che alla Corsica, alle Baleari, alle Canarie vengono assegnati molti più soldi da Francia e Spagna ma non ci si accorge che riescono a far valere sul tavolo delle trattative proprio la loro coscienza nazionale votando partiti indipendentisti, partiti nazionali che non hanno ipoteche mentali rispetto alla nazione francese e spagnola, e quindi ottengono più rispetto e più risorse. Fino ad oggi i sardi hanno pensato che il problema fosse essere sardi, poi è nato un orgoglio che però non ha preso una dimensione politica, che si basa su questa strana idea che per ottenere qualcosa dall’Italia bisogna dimostrare di essere, noi sardi, gli italiani migliori, speciali. Un fallimento pratico, oltre che morale. Bisogna cambiare questa mentalità. Non ci serve l’orgoglio ma la consapevolezza, costruita giorno per giorno attraverso una politica nazionale e indipendentista. Successivamente, nel momento in cui questa coscienza si farà concreta pratica di governo vedremo che nuove opportunità si apriranno, e che anche la possibilità di un referendum d’indipendenza entrerà nel nostro radar. E quando la questione si porrà si andranno a risolvere uno per uno i problemi legati ad un passaggio così delicato. Ma già oggi dobbiamo dire una cosa: progettare ed organizzare referendum d’indipendenza dentro l’Europa è più pensabile e fattibile di 20 anni fa: il referendum d’indipendenza della Scozia (dalla Gran Bretagna), della Catalogna (dalla Spagna) e anche quello della Nuova Caledonia (dalla Francia) erano impensabili, lo spazio europeo era considerato chiuso e definito. E invece abbiamo visto un referendum scozzese che era concordato, quindi pienamente legittimato, tanto che se l’opzione indipendentista avesse vinto oggi paradossalmente la Scozia sarebbe nell’Unione Europea a differenza del Regno Unito; avremmo certamente assistito ad un grande esperimento di riformulazione dello spazio europeo e delle procedure d’ingresso di uno Stato, cosa che potrebbe comunque accadere visto che la Scozia su questo punto non molla, tanto più dopo la Brexit. In Catalogna la situazione è stata differente perché la Spagna si è opposta alla celebrazione stessa del referendum, ne ha represso la messa in pratica e gli esiti. Ma intanto l’esperienza catalana ha prodotto in questi anni degli avanzamenti legislativi attraverso i pronunciamenti della Corte Europea, dell’ONU e di altre istituzioni, che un domani serviranno anche a noi. Intanto il punto è far capire che l’indipendentismo al governo può portare risultati concreti a livello economico, sociale, culturale. Può ridare quella speranza e quella spinta che oggi manca alla nostra terra".
È possibile sviluppare un’identità sarda in coabitazione a quella italiana, come succede con altre identità regionali in altri Stati, per esempio Spagna e Germania?
"È un problema politologico che viene posto spesso. Dentro qualunque Stato ci sono tante identità territoriali ma non tutte hanno una storia di nazione, e alla fine la storia passata è, insieme al principio democratico, l’unico criterio per valutare quale identità territoriale può ambire a un processo di autodeterminazione. L’Italia ha già un sistema regionalista. Al netto di come si evolverà, il punto è capire cosa vogliono fare i sardi. Perché se i sardi pensano che il massimo della loro identità è sacrificarsi per diventare i primi italiani continueremo con l’emorragia di intelligenze e risorse umane che caratterizza da troppo tempo la nostra storia. Ci sono poi due aspetti da segnalare rispetto allo sviluppo di una ipotetica identità nazionale senza aspirazioni indipendentiste. In primo luogo l’idea di nazione sarda non si è sviluppata autonomamente al di fuori dell’indipendentismo, dentro il percorso autonomista si è sviluppato solo un orgoglio regionalista non differente da quello calabrese, lombardo o di qualunque altra regione italiana. Dunque è difficile pensare che ci possa essere un’identità nazionale sarda senza un processo indipendentista. In secondo luogo, nei pochi paesi plurinazionali che esistono e che reggono, vi è un equilibrio tra le varie nazioni che li compongono: il peso demografico, del potere economico, del potere politico è abbastanza distribuito. All’interno dello stato italiano, a parte le comunità di confine come Sudtirol e Valle d’Aosta, non ci sono oltre i sardi molte altre nazioni storiche: forse i friulani, i veneti e i siciliani, ma non voglio essere io a dire agli altri cosa sono. Insomma, non c’è equilibrio. Il punto è che la nazione italiana esiste, ha almeno duemila anni di storia e, giustamente, si vuole pensare come unitaria. Per questo gli viene più facile pensare che un milione e mezzo di sardi si integrino ai 59 milioni di italiani che pensare di cambiare il suo ordinamento in uno stato plurinazionale che riconosca che in Italia ci sono (almeno) due nazioni: l’Italia e la Sardegna. A pensarla e dirla una cosa così sembra una pazzia. E fa capire che è molto più facile e realistico fare l’indipendenza della Sardegna lasciando, come è giusto, l’Italia agli italiani.
Il movimento A Innantis! basa la sua simbologia sulla bandiera del Giudicato di Arborea, riconoscendo la bandiera dei Quattro Mori come la “bandiera dell’invasore”. Se da un punto di vista storico questo è fondato, si può davvero rinunciare alla carica simbolica e identitaria che la bandiera sarda porta con sé?
"Fino a pochi anni fa pensare di caratterizzare un movimento politico con la bandiera dell’Albero verde era utopia, la stragrande maggioranza neanche la riconosceva e questo aspetto è effettivamente ancora presente. Tuttavia è la bandiera dell’ultima esperienza sarda in cui si realizza una effettiva indipendenza e si forgia quella coscienza di nazione che la sconfitta ha impedito di far maturare: Eleonora d’Arborea, ponendosi sulla scia del padre Mariano IV e del fratello Ugone III, nella Carta de Logu fa riferimento alla Republicha Sardischa, firma le paci a nome della nazione sarda, dice di essere regina per volontà del popolo sardo. Quell’Albero che certamente all’inizio fu il simbolo del giudicato o regno di Arborea divenne, dal 1353 al 1478, la bandiera dei sardi, la bandiera della nazione sarda. Se vogliamo un simbolo che parli di un momento di unità, potere, libertà non ne abbiamo uno migliore".
A che punto è la valorizzazione della lingua sarda?
"La questione della lingua sarda ci conferma quanto è stata traumatica la storia sarda. Se è vero che la dismissione del sardo è iniziata con i vari dominatori che si sono succeduti dopo il periodo dell’indipendenza giudicale, in cui in sardo si scrivevano le leggi che ci univano, è altrettanto vero che da un certo punto in poi è stata la classe dirigente sarda a propagare l’idea che la lingua sarda non dovesse venire più usata. Un solo esempio eclatante: nel 1978 viene fatto un intervento in sardo in quello che si definisce “consiglio regionale” e subito la politica sarda si rivolta e fa un regolamento per sancire che è proibito usare il sardo negli interventi all’interno di quella che dovrebbe essere la massima assemblea del popolo sardo. Questo è il punto più basso di un processo che inizia quando si spegne l’indipendenza medievale della Sardegna, quando le leggi, come la Carta de Logu, erano scritte in sardo, i re parlavano in sardo e tutto il popolo parlava in sardo. Quella forma di unità politica, non idilliaca ma per i tempi incredibile, stava producendo anche una forma di “standardizzazione” del linguaggio. Un processo che si perde quando il nesso tra potere sardo e lingua sarda salta. Anzi più si perde l’idea di nazione e più manca il sostrato che permette alle lingue di vivere, cioè l’essere percepita come un valore di unità a prescindere dal ritorno economico immediato. Posto che una nazione si può fare con qualunque lingua non si può fare senza avere almeno coscienza di averne una: in Irlanda si parla inglese, la lingua del “dominatore”, ma c’è una coscienza della loro lingua nazionale che è il gaelico, che viene comunque insegnata e promossa. Io credo che in Sardegna, se rimettessimo seriamente e istituzionalmente in circolo il sardo la situazione sarebbe molto diversa dall’Irlanda: siamo ancora in tempo per avere una Sardegna bilingue, plurilingue. È vero che in Sardegna c’è una varietà linguistica. Ma questo è normale e non ci deve spaventare. Ci vuole un grande processo di pedagogia linguistica che presuppone un grande investimento affettivo oltre che politico ed economico. Altrimenti il sardo, in assenza di un sentimento nazionale, rimarrà appannaggio delle vecchie generazioni, di qualche giovane acculturato o di qualche gruppo che la vede come un fattore di autopromozione sociale. Invece deve scattare l’idea che il sardo è lingua nazionale della Sardegna e deve esistere perché dà dignità e prospettiva, dunque non solo perché la si è parlata in passato ma perché la si vuole parlare in futuro, non per una identità nostalgica da celebrare ma per un’identità futura da costruire. Per questo è importante avere di sé un’idea di nazione: perché ci permetterebbe di fare un passo in avanti, di andare al di là della convinzione che “il sardo è quello che parlo io, che parla mia mamma o mio nonno”, che è bello ma limitante, per aprirci all’idea che “il sardo è quello che potrei scegliere di parlare con chiunque altro ha fatto la scuola e vive in Sardegna, perché tutti e tutte lo abbiamo studiato (insieme alle altre lingue di Sardegna)”. Io credo che c’è una generazione di attivisti della lingua che sta lavorando in questa direzione: magari ciascuno partendo dalla sua variante ma con un’idea di nazione e per questo aperti al confronto e a trovare soluzioni condivise per una politica linguistica sarda più forte".
Quanto è importante la ratificazione della Carta Europea delle Lingue Minoritarie in ottica della promozione della lingua sarda?
"Chiaramente tutti gli strumenti legislativi che permettono di porre la questione della lingua da una posizione di forza, sia di legittimazione morale e istituzionale ma anche in termini di acquisizione di spazi e risorse, sono importanti. Lo sono ancora di più se poi chi lavora alla loro implementazione ci crede. La Carta Europea delle Lingue Minoritarie (redatta dal Consiglio d’Europa, n.d.r.) ci parla della slealtà di uno Stato che da più di 20 anni non ratifica un documento fondamentale per la costruzione dello spazio europeo e di fatto preclude spazi di agibilità alla lingua sarda. Lo fa per tanti motivi: per non metterci soldi ma anche per non riconoscere l’uso della lingua sarda nell’Amministrazione Pubblica, nella scuola, nei media. E perché sa che l’ingresso della lingua si porta appresso anche quello della storia del popolo che la parla; lo dice la Carta Europea, non io. Insomma, come aveva intuito Gramsci, che non a caso da giovane era stato indipendentista, dietro una lingua c’è il tema politico di una soggettività altra che cerca spazio di autodeterminazione. Per questo lo Stato fa melina e se non facciamo qualcosa noi continuerà a farla. Bisogna, come abbiamo fatto con A innantis!, mettere tutta la forza e tutte le forze al tavolo. La forza degli argomenti e le forze sociali. E le forze sociali, possibilmente, prima ancora che politiche, cioè tutti coloro che riconoscono il valore della lingua sarda. Per questo abbiamo chiamato al tavolo associazioni di vario tipo, da quelle più strettamente linguistiche e artistiche impegnate con la lingua sarda, a quelle dei genitori che sperimentano per i figli percorsi di apprendimento in sardo o a quella parte del mondo sindacale schiettamente sardo. E così stiamo proseguendo: i giovani di A innantis! all’Università di Cagliari hanno fatto una grande operazione coinvolgendo attorno al tema della ratifica della Carta tutte le associazioni studentesche e molti docenti. Bisogna far vedere che c’è un mondo sociale che parla il sardo e lo vuole parlare: dai movimenti LGBTQ+ ai mondi del giornalismo, dalla Chiesa al mondo delle imprese. Bisogna sommare forze per poi mettere tutte le forze politiche davanti al fatto che la Sardegna vuole fare un salto di qualità nel riconoscimento linguistico e nell’uso della lingua. In modo che questa richiesta arrivi forte, unitaria, al tavolo con lo Stato. Poi ci sono altre cose da fare: ci sono delle leggi, perfettibili, che danno strumenti e bisogna applicarle, bisogna mettere la lingua sarda nello Statuto di Autonomia, o ancor meglio in una nuova Carta di Sovranità che ci faccia avanzare verso il nostro autoriconoscimento nazionale. Perché bisogna ricordare che oggi, nello Statuto d’Autonomia, non c’è nessun riferimento al popolo, alla lingua, alla storia della Sardegna. Ci sono tante iniziative che si possono sviluppare, anche copiando e adattando esperienze fatte altrove. Il punto è che tutto diventa più efficace con una coscienza nazionale dietro, anzi, davanti: perché come è stato detto da un grande indipendentista, non sardo, “la nostra identità è davanti a noi”, cioè nel progetto di società che costruiamo insieme. Bisogna quindi, anche in materia linguistica, andare a trovare sintesi complesse. Ad esempio sviluppando un modello pedagogico che ci faccia passare da una variante condivisa, a una variante letteraria locale, a quella paesana. E viceversa. Serve questa stratificazione a doppia mandata, perché mentre le vecchie generazioni cresciute sardoparlanti trovano più facile partire dalla varietà locale, le nuove generazioni, che soprattutto nei grandi contesti urbani in cui si concentra la maggior parte dei sardi (e con sardi intendo anche tutti coloro che scelgono di vivere qui pur venendo dall’Italia, dalla Cina, dalle Filippine o dal Senegal) crescono senza nessuna variante locale di riferimento, troverebbero certamente più facile iniziare da una variante condivisa, per passare poi a scoprire la varietà letteraria della propria macro-regione e infine quella cittadina/paesana. Ci vuole dunque un forte investimento di politica linguistica, perché se si ragiona con idee piccole poi diventa una guerra tra poveri. Se ragioniamo con idee grandi, con una visione di nazione, si può arrivare a soluzioni non facili ma che possono rafforzarci a tanti livelli, salvando le varietà locali, le varietà letterarie, lo standard e un generale plurilinguismo della Sardegna. Che così darebbe veramente l’idea di poter essere una nazione che può dare qualcosa a sé stessa e al mondo".
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