Ma perché si fanno la guerra?
- Francesca Deiana
- 17 mag 2021
- Tempo di lettura: 3 min

Se siete nati dopo il 1947 siete nati, cresciuti e, in alcuni casi, invecchiati sentendo parlare di “guerra”, “conflitto” arabo-israeliano o, come sarebbe più opportuno definirla, "questione palestinese".
La questione nasce trent’anni prima della proclamazione dello Stato d’Israele, precisamente quando, nel 1916, il diplomatico inglese Mark Sykes e il diplomatico francese Georges Picot si accordano per spartirsi i territori dell’ormai decadente Impero Ottomano: i territori che oggi comprendono la Palestina e Israele vengono affidati al controllo della Gran Bretagna, che un anno dopo sigla la Dichiarazione di Balfour in cui autorizza la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Esattamente trentuno anni dopo con l’approvazione degli Stati Uniti, nel 1948, viene proclamata la nascita dello Stato d’Israele. L’ideologia sionista prevedeva che gli immigrati ebrei, ora Israeliani, si dedicassero alle attività agricole, ma per fare ciò i contadini palestinesi che vivevano lì da secoli furono espulsi e centinaia di villaggi palestinesi distrutti. È qui che si forma il punto di rottura che perdura da 74 anni.
Per dedicarsi all’attività agricola gli Israeliani non necessitavano solo di terre ma anche di acqua ed è questo il centro della questione. Ad oggi Israele controlla l’87% delle risorse idriche del territorio, più l’intero fiume Giordano. Il controllo dei militari israeliani sui territori palestinesi, in particolar modo nell’altura del Golan e in Cisgiordania, fa in modo che Israele possa avere l’uso quasi del tutto esclusivo dei bacini e delle risorse idriche presenti in queste aree; in aggiunta l’ordine militare numero 158 proibisce di scavare pozzi, creare stazioni di pompaggio, sorgenti e qualunque altro tipo di opera edile che abbia carattere idrico. Le pene in caso di trasgressione della norma sono severissime e comprendono la distruzione delle opere.
L’ONG inglese Oxfam ha rilevato che nel 2013 i 520 mila coloni israeliani che abitano Gerusalemme Est e la Cisgiordania hanno avuto accesso a una quantità d’acqua sei volte superiore a quella a cui hanno accesso i Palestinesi; una realtà che stride con l’innovazione che gli Accordi di Oslo del 1993, in cui si stabiliva la divisione della Cisgiordania in tre parti, una delle quali sotto il totale controllo palestinese (oggi assolutamente formale), avrebbe dovuto portare.
La tragicità che la questione palestinese porta con sé è maggiormente visibile nella Striscia di Gaza, una porzione di territorio semidesertico di soli 365 km quadrati, che ad oggi ospita 1 milione e 800 mila abitanti. Il primo scontro del 1948, in cui gli israeliani ebbero la meglio, comportò che un massiccio afflusso di profughi si trasferì forzatamente in questa porzione di terra e il problema della scarsità d’acqua aumentò in maniera esponenziale, proprio come il numero dei profughi nei decenni successivi. La vicinanza al mare, infatti, rende facilmente possibili le infiltrazioni di acqua salina nelle falde acquifere; sul territorio è presente un impianto di desalinizzazione dell’acqua, che però per funzionare necessita di energia elettrica e, dunque, di carburante, il cui ingresso a Gaza, accanto ai generi alimentari e ai materiali edili, è ostacolato in ogni modo dalle imposizioni israeliane.
Nel 2006 in Palestina vince le elezioni il Movimento Islamico di Resistenza (Hamas) e da allora il Movimento controlla gran parte della Striscia di Gaza, seppur con scarse risorse economiche che gli impediscono il finanziamento di enti pubblici. Fin dalla sua nascita, Hamas si è proposto come un’alternativa all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con cui condivide il fine ma non i mezzi. Il Movimento, infatti, sembra seguire la stessa linea dei partiti islamici radicali, che vedono nella re-islamizzazione della società e nella jihad l’unico strumento per contrastare la presenza sionista nel territorio palestinese (ricordiamo che non tutti i partiti islamici vedono nella jihad una soluzione). Gli scontri tra Israele e Hamas si sono susseguiti nel tempo ma è una lotta impari: il primo può contare su tecnologie militari di ultima generazione e, dunque, di gran lunga più avanzate rispetto a quelle di cui dispone il secondo: il sistema antimissilistico su cui può contare Israele, per esempio, è stato in grado di rilevare e distruggere la maggior parte dei razzi sparati dalla Striscia. I nuovi attacchi aerei e terrestri tra Hamas e Israele, in cui al momento in cui scriviamo hanno perso la vita 182 Palestinesi e 1000 sono rimasti feriti, hanno riacceso l’interesse dei media per la Palestina, ma a differenza della nostra attenzione nei confronti della questione, le condizioni in cui i palestinesi vivono da quasi ottant’anni non sono ad intermittenza.
Ma come è possibile che un regime che si definisce democratico possa compiere tante violazioni del diritto umanitario da così tanto tempo e che con il passare di questo la situazione sia pure peggiorata? Certamente Israele può contare sulla potente alleanza USA, ma c’è chi sostiene che la motivazione non sia soltanto legata alle alleanze diplomatiche. Ugo Tramballi su ispionline.it scrive “(…) credo che le nostre responsabilità storiche rendano difficile sanzionare Israele. (…) Ci piaccia o no per noi Israele non è un luogo come un altro”.
È davvero così?
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