La partecipazione dei lavoratori agli utili: dalle origini cattoliche ai limiti applicativi nella realtà italiana
- Francesco Ortu
- 20 lug 2024
- Tempo di lettura: 7 min

Qualche tempo fa, seppur in maniera provocatoria, Matteo Renzi rilanciò in un’intervista una proposta che nel passato suscitò particolare curiosità ed interesse sia in ambito nazionale che internazionale: la partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa. [1]
Questa particolare, e per certi versi visionaria, politica pubblica ebbe varie esperienze in ambito aziendale [2] ma solo in un caso, quello svedese degli economisti Rudolph Meidner e Gosta Rehn durante l’esperienza governativa di sinistra di Olof Palme, si arrivò quasi ad introdurre questa realtà in maniera strutturale. Nonostante questo precedente di sinistra, le radici di questa politica economica sono in realtà ascrivibili a una tradizione socio-economica di area cattolica, la quale si può associare ai concetti di corporativismo ed economia civile, tutte inquadrate nell’alveo della Dottrina Sociale della Chiesa.
In questo articolo tenteremo, in maniera breve ma esaustiva, di fornire una ricostruzione ideologica di questo dispositivo, contestualizzandolo nella realtà italiana che vide la CISL e il sindacalismo cattolico come principale promotore. Inoltre, metteremo in luce alcuni elementi critici e istituzionali dell’Italia che costituirebbero seri impedimenti alla sua introduzione.
Le radici cattoliche e la via italiana
Al fine di comprendere adeguatamente le ragioni e le cause che fanno da base a questo modello, ripercorreremo, in maniera rapida e sintetica, i passaggi funzionali al sorgere di questo assetto nelle elaborazioni teoriche portate avanti dal cattolicesimo.
L’esigenza della Chiesa di svilupparsi in tale direzione deriva da emergenze legate all’esplosione del conflitto capitale-lavoro. Per non rimanere esclusa, oltre che schiacciata, fra le due potenze ideologiche dominanti a partire dal XIX secolo, socialismo e liberalismo, le istituzioni religiose dovettero lavorare per ritagliarsi un proprio spazio, con una propria concezione del mondo in divenire da offrire alla popolazione. L’obiettivo posto fu quindi quello di trovare una soluzione mediana, capace soprattutto di porsi come alternativa credibile al dilagare del socialismo nelle masse operaie e che, allo stesso tempo, facesse da sintesi fra i valori della Caritas cristiana e l’apertura verso l’economia di mercato, dunque il profitto e l’attività d’impresa, in coerenza con il processo identificato da Jacques Le Goff già a partire dal Medioevo. [3]
La risposta a questa particolare esigenza fu individuata nel corporativismo. Le ragioni che portarono a questa scelta gravitano principalmente attorno a due motivazioni: in primis ci si avvicinava alla concezione paolina della società organicistica [4]; in secundis il corporativismo avrebbe permesso di raggiungere la pacificazione sociale.
Partendo con il primo elemento individuiamo subito come San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, teorizzava una forma societaria in cui tutti i soggetti erano perfettamente sincronizzati e in sintonia, nonostante le loro differenze, al funzionamento del tutto. Più specificatamente egli sostiene: “E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra […] Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui”[5]. Forte di questa visione, e forte dell’esperienza medievale in cui le corporazioni contribuirono a gestire e regolamentare la vita economica, fissandone le norme morali e garantendo un fitto legame interclassista [6], questa forma organizzativa attirò l’interesse di Papa Leone XIII, il quale commissionò studi appositi sul tema e divenne, vista la sua funzionalità al costrutto ideologico in cantiere, elemento centrale della Dottrina Sociale della Chiesa in seno alla Enciclica Rerum Novarum del 1891. [7]. Il combinato di questi elementi permise quindi di considerare il corporativismo come diretto rivale del socialismo, nel tentativo di contrastare il degenerare del sistema capitalistico, perseguendo l’obiettivo attraverso, per l’appunto, la collaborazione e la pacificazione sociale.
Se il socialismo vedeva la sua linfa vitale nel conflitto, la Chiesa trovava il suo elemento fondante nella concertazione. Come ciò si ricollega all’oggetto del nostro articolo? La partecipazione agli utili avrebbe reso i lavoratori molto più coinvolti e sensibili agli obiettivi d’impresa, grazie anche agli interessi divenuti convergenti, permettendo approcci più cooperativi e maggiori sforzi in sede produttiva, raggiungendo un appiattimento del conflitto fra le parti.
Questo excursus, seppur breve e riassuntivo, ha permesso di inquadrare il contesto in cui tale idea è nata e si è mossa, dando forma al background che ne ha permesso l’introduzione nelle agende politiche. Come prossimo passo possiamo mettere a fuoco maggiormente il protagonista dell’articolo, ponendo sotto la lente d’ingrandimento la realtà italiana e i suoi promotori. Questi progetti trovarono anche nel Paese nostrano un’ampia ricezione nel mondo intellettuale e associativo di stampo cattolico; in particolare riusciamo a rintracciare tre personaggi che si spesero largamente per il corporativismo e le idee ad esso ricollegate: l’economista e sociologo Giuseppe Toniolo, il sindacalista Giulio Pastore e l’accademico economista Ezio Tarantelli. Questi contribuirono in modo diverso, ma egualmente importante, a diffondere questo corpus d’idee. Il primo andò a cementare l’idea della visione sociale corporativa, riprendendo, ampliando e rinforzando la visione dell’Enciclica del 1891 sia sotto un punto di vista politico che morale [8]; il secondo si fece attivo promotore della partecipazione alla vita economica e gestionale delle attività produttive, anche se distaccandosi rispetto alla concezione tradizionale cattolica [9]; il terzo elaborò una visione neocorporativa delle relazioni industriali, in piena linea con la tendenza dell’epoca, inquadrando un sindacato autonomo e centrale, capace di interfacciarsi in maniera puramente tecnica con le controparti governative, sociali ed economiche [10]. I primi due, inoltre, possono essere considerati i primi teorizzatori e promotori della partecipazione ai profitti aziendali [11], inquadrandone le teoriche potenzialità e attualità, le cui successive elaborazioni arrivano sino ad oggi. Procederemo perciò ad osservare quelli che sono gli elementi principali attraverso l’analisi della proposta di legge presentata da CISL al Parlamento lo scorso anno.
Proposta e limiti

Avendo dato ampio spazio alla ricostruzione, possiamo concentrare la nostra attenzione su una breve analisi critica del disegno di legge di iniziativa popolare presentato alla Camera lo scorso anno ed intitolato “Partecipazione al Lavoro”. [12] Il testo presenta vari argomenti, noi ci focalizzeremo però solo su quelli relativi al nostro tema, rintracciabili nel Titolo III della proposta.
Possiamo innanzitutto osservare come si tenti di incentivare l’adozione di questa pratica attraverso un’imposta sostitutiva del 5% per coloro i quali redistribuiscono almeno il 10% dei propri profitti, ma solo sino ad un ammontare totale lordo di 10.000 euro. Per capire come il sistema operi bisogna andare all’articolo successivo (art.7) in cui si esplicita che il piano di partecipazione prevede l’acquisizione di azioni o quote di capitale d’impresa, condizioni che possono essere previste anche dalla contrattazione collettiva la cui adesione sarà però esclusivamente su base volontaria e i contratti potranno anche decidere di destinare una quota salariale entro il 15% per finanziare la partecipazione. I lavoratori potranno infine nominare dei rappresentanti per i vari organi societari.
Il progetto qui presentato mantiene una certa carica di innovatività, ma in maniera molto edulcorata e moderata rispetto ai piani e agli obiettivi storici, sottolineando una natura sia facoltativa che particolarmente contingentata. Ciò però non risulta la principale stonatura; questa si rintraccia infatti nelle problematiche strutturali che costituiscono un serio ostacolo al progetto. Vista la complessità dell’argomento, e il poco spazio a disposizione ci concentreremo soprattutto su due fattori critici: l’elemento politico e quello ambientale.
In relazione al primo problema troviamo tracce in una natura intrinsecamente “conflittuale” del rapporto fra le parti sociali. Per spiegare meglio tale elemento ricorriamo ad un articolo pubblicato da Gino Giugni e Luciano Cafagna nel 1977 su Mondoperaio. [13] Il giuslavorista socialista rimarcava infatti che, nonostante esso condividesse la necessità del superamento della fase oppositiva al fine di permettere alla classe operaia di guadagnare una posizione centrale, le modalità corporative di democrazia economica mal si sarebbero adattate al contesto italiano e avrebbero avuto l’effetto collaterale di circoscrivere e rilegare l’azione della classe lavoratrice unicamente ai confini della fabbrica, riducendo e limitando la carica politica e dialettica, mozzando ogni possibilità di azione “globale” e limitando il tutto ad una lottizzazione di potere. [14] Al contempo, le stesse forze partitiche di sinistra, legate a doppio filo alle realtà sindacali, avrebbero avuto pochi interessi, sia in termini elettorali che ideologici, a retrocedere su un sistema sterilmente concertativo.
Il secondo problema, come detto, è di natura ambientale ed è rintracciabile nella stratificazione imprenditoriale italiana. Attraverso un’analisi dei censimenti ISTAT è possibile constatare come il tessuto economico nazionale sia connotato da imprese di dimensioni ridotte, a conduzione familiare e con volumi d’affari e di capitalizzazione molto bassi, per la stragrande maggioranza riferibili alla classe dimensionale delle PMI [15], di cui una buona parte non produttive e con occupabilità irrisoria. L’elemento però più importante sulla compatibilità di queste imprese con la partecipazione agli utili di perviene dall’analisi adoperata da Sandro Trento [16], il quale analizza come i loro proprietari siano pienamente focalizzati sul controllo totale delle loro aziende in quanto fonti di rendita, che non sono interessati a massimizzare e che gli consente di non svolgere lavoro dipendente. In virtù di questa sacralità del controllo appare difficile inquadrare non solo l’interesse a comportamenti corporativi, ma addirittura collaborativi. Elementi che, sommati all’atomizzazione imprenditoriale precedentemente esposta, rendono difficoltoso applicare in maniera strutturale questa iniziativa, relegandola a poche nicchie ristrette.
In conclusione, possiamo constatare che, nonostante il fascino di queste proposte, la loro applicabilità risulti pragmaticamente una chimera, viste le difficoltà strutturali che renderebbero l’applicazione pressoché ininfluente. Tuttavia, tornando a Giugni, questo non dovrebbe impedire il proseguimento della ricerca di nuove possibilità e nuove idee che consentano di costruire nuove forme organizzative che restituiscano al lavoratore una posizione centrale e apicale, proporzionata ai frutti che le loro prestazioni permettono di far germogliare e raccogliere.
Fonti:
[1] Redazione, Renzi “Incentivare la partecipazione dei lavoratori agli utili”, Italpress, 21 settembre 2023, https://www.italpress.com/
[2] Partecipazione agli utili, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia
[3] Le Goff Jacques (2010), Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, i Robinson, Laterza
[4] Wiarda Howard J. (1997), Corporatism and comparative politics. The other great -ism, ME Sharp Inc
[5] Prima Lettera ai Corinzi, 12, https://www.lachiesa.it/bibbia
[6] Le Goff Jacques (2010), Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo, i Robinson, Laterza; Fanfani Amintore (1935), Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, Vita e Pensiero
[7] Leone XIII, Enciclica "Rerum Novarum", 1891, https://www.caritascaserta.it
[8] Cerasi Laura (2014), Il corporativismo “normale”: Giuseppe Toniolo tra medievalismo, laburismo cattolico e riforma dello Stato, Humanitas, vol.69 No.1
[9] FAI-CISL, Un riformatore sempre attuale: Giulio Pastore, Opinioni, Anno IX - numero 3 - luglio/settembre 2019, https://www.fondazionefaicisl.it
[10] Leonello Tronti, Il lavoro come partecipazione. La lezione disattesa di Ezio Tarantelli, ETICAEECONOMIA, 1 aprile 2023, https://eticaeconomia.it
[11] Antonio Fazio, Giuseppe Toniolo: Attualità del pensiero, Fondazione Centesimus Annus, 15 febbraio 1997, https://www.bancaditalia.it; “Ecco perché incentivare la partecipazione dei lavoratori all’impresa conviene a tutti” – Secondo Welfare, CISL, 25 settembre 2023, https://www.cisl.it/notizie
[12] Proposta di legge di iniziativa popolare, La Partecipazione al Lavoro - Per una governance d’impresa partecipata dai lavoratori, CISL, https://www.partecipazione.cisl.it
[13] Gino Giugni e Luciano Cafagna, La democrazia industriale nella strategia del sindacato, Mondoperaio, p.58, 3 marzo 1977, https://mondoperaio.senato.it
[14] Mattia Gambilonghi, Gino Giugni teorico della democrazia industriale, Pandora rivista, 20 gennaio 2020, https://www.pandorarivista.it
[15] Colli Andrea (2007), Capitalismo famigliare, Saggi, Il Mulino; Accornero Aris (1998), Trasformazioni del lavoro, Istituto Gramsci Piemonte
[16] Trento Sandro (2012), Il capitalismo italiano, Universale Paperback, Il Mulino
Kommentare