La carriera infinita di Davide Rebellin
- Francesco Podda
- 1 dic 2022
- Tempo di lettura: 3 min

Era il 1992 quando due giovani ragazzi di belle speranze esordivano nel mondo dei professionisti nella stessa gara: il GP di Camaiore.
Il primo si chiamava Marco Pantani, scalatore puro, le cui imprese, per la loro caratura e importanza sono conosciute da tutti, chi più chi meno. Così come, oltre alle sue imprese, è ricordata la sua fine, tragica e piena di misteri.
Il secondo giovane invece si chiamava Davide Rebellin, ragazzo dotato di un discreto spunto veloce che sarebbe diventato una punta di diamante internazionale nelle classiche del mondo del ciclismo.
Entrambi accomunati da grinta fuori dal comune, le loro vite e carriere furono separate forzatamente alla morte di Pantani, nel 2004. Rebellin allora aveva di fronte ancora qualche anno di professionismo, con l’orizzonte dei quarant’anni come età ideale per il proprio ritiro, come la maggior parte dei colleghi. La gioia più grande probabilmente arriva quattro anni più tardi.
Nell’estate del 2008 Rebellin ottiene il secondo posto in una gara, che non è una gara come le altre: si tratta della prova olimpica dell’edizione dei giochi di quell’anno a Pechino. Vince la medaglia d’argento: un risultato insperato, a 37 anni di età.
Quella gara divenne però uno degli aspetti più controversi ma allo stesso tempo, forse, più avvincenti della sua corsa: trovato positivo ad un controllo antidoping, fu costretto a restituire la medaglia vinta e a ricevere due anni di squalifica.
Per un ciclista alla soglia dei quarant’anni significava la fine della carriera. Chiunque altro si sarebbe arreso: a quell’età non valeva di certo la pena continuare a correre.
Ma lui non era della stessa idea.
Con coraggio e costanza Rebellin continuò ad allenarsi e a portare avanti le sue battaglie legali, che vinse nel 2011. Anno in cui tornò in sella alla propria bicicletta. “Per uno o due anni massimo, non di più” dicevano gli addetti ai lavori. “Per quanto voglio io” avrà pensato lui.
È così è stato, fino all’annuncio del ritiro a metà di quest’anno. Dopo più di dieci anni di grandi piazzamenti e vittorie, quasi forzato da un contratto in scadenza a fine 2022 che non sarebbe stato rinnovato.
Fino alla tragedia di ieri sera, 30 novembre. Una bici distrutta, un’altra vita spezzata da un mezzo più pesante in corsa. Lo stesso infame destino dell’indimenticato Michele Scarponi, investito nel 2017 durante un allenamento. La stessa fine di 691 persone nel solo 2021 tra pedoni e ciclisti, che da anello debole della catena sono coloro che pagano le maggiori conseguenze degli incidenti stradali. Non sta a nessuno fare polemica a riguardo, sarà la giustizia a fare il suo corso.
A noi resta la storia di due debuttanti e la storia di due vite spezzate. La prima, quella di Pantani, interrotta a metà carriera, con tanti anni di professionismo ancora davanti. E la seconda di un Rebellin che però, prima di fermarsi, ha voluto regalare al mondo gli anni di professionismo che la prima non era riuscita a disputare.
Un ciclista di nome Ivan Basso, nel suo libro, scrive una frase: “Alla fine resta solo il vento, ed il rumore di una bicicletta che passa”.
Si, alla fine resta solo il vento. Ma il rumore non è di una. È di due biciclette che passano. Lente e leggere, di nuovo a pedalare assieme. Entrambe ancora professioniste, entrambe ancora aggrappate al proprio sogno.
Un sogno che nessuna tragedia sarà mai in grado di spezzare.
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