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Prima dei nuraghi: la Sardegna nell’età preistorica – Parte II

  • Francesco Serra
  • 16 lug 2024
  • Tempo di lettura: 7 min
Menhir dal sito di Pranu Muttedu a Goni (foto di F. Serra)

Riprendendo il nostro viaggio nella Sardegna preistorica cominciato nel precedente articolo [1], abbiamo visto come nelle fasi finali del Neolitico le comunità umane si stessero proiettando verso una più concreta differenziazione sociale, che sarà poi contraddistinta da un assetto maggiormente gerarchico, derivante dal possesso e dall’utilizzo di oggetti in metallo, uno dei tratti distintivi delle classi elitarie.


Fra il IV e il III millennio a.C. si registra dunque una graduale evoluzione di ordine sociale ed economico fra le antiche popolazioni che abitavano la Sardegna dell’epoca, indicata in primis dalle domus de janas, ma anche dalla diffusione di un importante fenomeno culturale di matrice esterna all’Isola: il megalitismo. Sicuramente è un termine abbastanza familiare che rimanda subito ai grandi monumenti preistorici come Stonehenge realizzati tirando su imponenti massi e che spesso, tuttavia, viene impropriamente accostato alle costruzioni nuragiche. Sebbene derivi dalla combinazione delle parole greche mégas (grande) e líthos (pietra), non basta l’impego di enormi blocchi di pietra per poter definire “megalitico” un monumento, altrimenti dovremmo indicare come tali persino le piramidi di Giza o il Partenone. Dunque, per megalitismo si intende un fenomeno culturale originario dell’Europa nord-occidentale e diffusosi in maniera intensiva tra Francia, Spagna e le Isole Britanniche a partire dal V millennio a.C., contraddistinto dall’innalzamento di grandi pietre verticali infisse nel terreno, chiamate menhir (dal bretone, “pietra lunga”), le quali, se combinate fra loro, potevano costituire circoli di pietra monumentali, detti cromlech (cerchio di pietra), oppure andare a comporre veri e propri ambienti sepolcrali, detti dolmen (tavola di pietra), sfruttando un semplice sistema trilitico, con almeno due pietre posizionate verticalmente e una posta orizzontale sulla sommità. Tali monumenti avevano una sicura funzione cultuale e funeraria, dunque erano pertinenti alla sfera del sacro, nonostante vi siano ancora numerosi punti oscuri per quanto riguarda le loro dinamiche di diffusione e i rituali esercitati presso queste evidenze archeologiche. [2] Alcuni studiosi non escludono infatti che potessero essere connessi persino a fenomeni astronomici ciclici quali solstizi ed equinozi, sebbene attualmente non vi siano indizi a sufficienza per comprovarlo, considerando tutti i monumenti megalitici.


Dolmen di Sa Covecadda a Mores (Wikimedia Commons)

In Sardegna le primissime manifestazioni di megalitismo comparvero nella seconda metà del V millennio a.C. nella necropoli di Li Muri ad Arzachena, attraverso i circoli di pietre infisse che delimitavano le sepolture a cista litica; tuttavia è con le ultime fasi della facies di Ozieri (si ricorda che per facies si intende l’insieme delle manifestazioni culturali in ambito archeologico) che il megalitismo si diffuse sensibilmente in tutta l’Isola, tramite menhir e dolmen, di cui, ad esempio, si conservano ancora importantissime testimonianze presso il sito di Pranu Muttedu a Goni e nel sito di Sa Covecadda a Mores. Ancora oggi fra gli studiosi si dibatte su come sia giunto in Sardegna il fenomeno del megalitismo, se sia stato introdotto da esterni o se sia nato autonomamente nell’Isola, considerando che vi sono tratti stilistici peculiari nel repertorio megalitico sardo. Ma un’ipotesi non necessariamente esclude l’altra, in quanto è altrettanto plausibile che influssi da altre regioni dell’Europa siano giunti in un momento in cui si stava già percependo la necessità di sviluppare determinate manifestazioni culturali in relazione all’evoluzione della gerarchia sociale all’interno delle varie comunità neolitiche isolane. [3]


Particolarmente rilevante in tal senso risulta una determinata produzione di menhir propria del panorama sardo e attestata prevalentemente nella regione storica del Sarcidano, ossia le statue-menhir, così denominate per il loro peculiare aspetto. Attorno all’inizio dell’Età del Rame, dunque alle soglie del III millennio a.C., fecero la loro comparsa dei menhir lavorati e rifiniti al punto tale da sembrare quasi delle stele o statue abbozzate, proponenti differenti simboli tuttora abbastanza enigmatici, come la figura del “capovolto”, una specie di tridente che secondo alcuni sarebbe la rappresentazione stilizzata dell’anima del defunto che ritorna alla Madre Terra, oppure il pugnale a “doppia lama” dalla conformazione simmetrica, verosimilmente un rimando al prestigio militaresco. Sulla base dei pochi dati archeologici recuperati scientificamente e dei confronti con altri tipi di statue-menhir attestati in varie regioni del continente europeo, è assai probabile che tali manufatti fossero riferiti alla dimensione funeraria di personaggi ricoprenti uno status sociale elitario, forse addirittura considerati come eroi divinizzati dopo la morte. [4]


Statue-menhir dal Menhir Museum di Laconi (foto di F. Serra)


La necessità di rimarcare il proprio rango all’interno della piramide sociale perdurò anche nei secoli successivi del III millennio a.C., in particolare attraverso l’ostentazione delle armi in rame, simbolo di controllo su un’entità sociale e territoriale, in quanto il possesso dei metalli, e pure la supervisione della loro produzione, era appannaggio dell’élite di ogni comunità e, chiaramente, della classe guerriera. Protagonista quasi assoluta di questa fase fu senza dubbio la facies di Monte Claro (2700-2200 a.C.), così denominata poiché le prime manifestazioni certe di cultura materiale vennero scoperte nell’omonimo colle di Cagliari. Ben documentata in pressoché tutto il territorio isolano, la cultura Monte Claro riveste un’importanza scientifica capitale per via del vasto repertorio tipologico che è riuscito a conservarsi nei vari contesti preistorici, specialmente funerari, come quello in via Basilicata a Cagliari o nella località di Bau su Matutzu a Serdiana.

Pugnaletto in rame della facies Monte Claro da Cagliari, località Sa Duchessa (Catalogo Generale dei Beni Culturali) [8]

Fra gli oggetti più caratteristici, almeno per quanto riguarda quelli relazionati ai personaggi di rilievo, abbiamo scodelle, situle (grandi vasi tronco-conici adibiti ad uso rituale in differenti culture antiche), vaghi di collana realizzati in osso o pietra, e pugnaletti dalla particolare forma “a foglia”. [5] Quest’ultimo tipo di manufatto è stato recentemente registrato anche nel singolare contesto indagato dall’Università di Cagliari, ossia la Grotta di Acquacadda a Nuxis, in cui un esemplare di pugnaletto (attualmente in fase di analisi) risultava associato ad una vasta dispersione di ceramiche Monte Claro, intenzionalmente frammentate a seguito di un rituale. [6]

Nonostante molti pugnaletti abbiano una valenza puramente simbolica, il ruolo fortemente emblematico e identitario che le armi assumono in questo periodo, non solo in Sardegna, porterebbe ad ipotizzare un certo tratto bellicoso nelle genti eneolitiche, le quali, potremmo dire, avrebbero compiuto una sorta di “corsa agli armamenti” ante litteram, in modo tale da mostrare ai gruppi rivali chi fosse meglio equipaggiato e di conseguenza chi detenesse più potere e prestigio, tenendo presente pure il fatto che proprio con la facies Monte Claro si ebbe l’edificazione delle prime vere e proprie murature fortificate con intento difensivo. [7]

Dispersione di ceramiche Monte Claro nella Grotta di Acquacadda a Nuxis (foto di F. Serra)
Bell Beaker da Gonnostramatza, località Bingia ‘e Monti (Catalogo Generale dei Beni Culturali) [9]

Verso la fine dell’Età del Rame e l’inizio dell’Età del Bronzo (2400-2000 a.C. circa), dunque in parziale sovrapposizione al periodo Monte Claro, comparve in Sardegna quella che tutt’oggi risulta ancora uno dei maggiori enigmi dell’archeologia sarda: la cultura del “vaso campaniforme”. Così denominata per via del suo peculiare vaso a forma di campana rovesciata (bell beaker), la facies Campaniforme è considerabile come la prima cultura di origine certamente esterna registrata in Sardegna, poiché la ritroviamo con le medesime caratteristiche in moltissime regioni dell’Europa, dal Portogallo fino alla Polonia, persino nelle Isole Britanniche, nella Penisola Italica e in Sicilia. Essa si distingue per un set abbastanza standardizzato di manufatti ritrovabili nelle apposite sepolture, composto soprattutto dal beaker decorato con bande lineari e a zig-zag, scodelle emisferiche, bottoni forati e brassards, ossia bracciali protettivi per arcieri, ulteriore allusione ai connotati bellicosi della società dell’epoca. Il problema di questa cultura non sta solo nel suo luogo di origine ancora ignoto, ma anche nel determinare se sia la testimonianza materiale di una specifica etnia oppure sia da ricondurre ad un’usanza adottata da più popoli (oggi useremmo il termine “moda”) in ambito rituale e funerario, dato che, almeno in Sardegna, quasi tutti i siti pertinenti esclusivamente al Campaniforme sono ascrivibili a contesti tombali, mentre quei pochi abitativi documentati sono comunque associati ad altre culture coeve. [10]  


Giungiamo infine, con i primi secoli dell’Età del Bronzo (2200-1800 a.C. circa), a quella che forse potremmo definire come l’unica cultura veramente “prenuragica”, ossia la facies Bonnanaro, in quanto, sviluppatasi in seno alla precedente fase Campaniforme, pose a sua volta le basi per delineare le architetture e le produzioni materiali della civiltà nuragica propriamente detta, la quale sarebbe stata la protagonista indiscussa dello scenario isolano per i successivi mille anni. [11]


Attraverso questa estrema sintesi della preistoria in Sardegna abbiamo visto il lungo cammino evolutivo delle genti che abitarono l’Isola millenni fa, dotate di peculiarità sorprendenti, spesso criptiche ai nostri occhi, e talvolta intrecciate con elementi allogeni testimonianti l’esistenza di contatti fra più regioni del Mediterraneo in tempi così remoti. Purtroppo, il modo che adottiamo noi oggi per indicare questi popoli, prevalentemente attraverso toponimi sardi, di certo non rende loro giustizia, poiché aspetti come le lingue parlate inevitabilmente vanno a perdersi in epoche estremamente antiche e diventa impossibile sapere in che modo chiamassero loro stessi.

Possiamo tuttavia mandare avanti la ricerca per tentare di definire meglio l’identità di queste culture, in parte ancora rimanenti all’ombra dei nuraghi, ai quali senza dubbio non hanno nulla da invidiare.


Fonti:

[1] Francesco Serra, Prima dei nuraghi: la Sardegna nell’età preistorica – Parte I, TocToc Sardegna, 17 febbraio 2024, https://www.toctocsardegna.org

[2] J. Guilaine, Megalitismo europeo e mediterraneo, in T. Cossu, C. Lugliè (eds.), La preistoria in Sardegna. Il tempo delle comunità umane dal X al II millennio a.C., Ilisso, Nuoro, 2020, pp. 137-144

[3] R. Cicilloni, Il megalitismo in Sardegna, in T. Cossu, C. Lugliè (eds.), La preistoria in Sardegna. Il tempo delle comunità umane dal X al II millennio a.C., Ilisso, Nuoro, 2020, pp. 145-158

[4] G. Murru, Le statue menhir di Laconi, in T. Cossu, C. Lugliè (eds.), La preistoria in Sardegna. Il tempo delle comunità umane dal X al II millennio a.C., Ilisso, Nuoro, 2020, pp. 331-335

[5] M. R. Manunza, La necropoli Monte Claro, in T. Cossu, C. Lugliè (eds.), La preistoria in Sardegna. Il tempo delle comunità umane dal X al II millennio a.C., Ilisso, Nuoro, 2020, pp. 238-239; M. R. Manunza, La tomba di Bau su Matutzu, in T. Cossu, C. Lugliè (eds.), La preistoria in Sardegna. Il tempo delle comunità umane dal X al II millennio a.C., Ilisso, Nuoro, 2020, pp. 240-243

[6] R. Cicilloni, E. Marini, M. Cabras, F. Porcedda, R. Curreli, Scavi archeologici nella grotta di Acquacadda di Nuxis (Sud Sardegna): campagna 2019, in Quaderni 30/2019, notiziario. pp. XXVII-XXVIII, https://web.unica.it/unica/it

[7] A. Moravetti, Sulla cultura di Monte Claro, in A. Moravetti, P. Melis, L. Foddai, E. Alba (eds.), Corpora delle antichità della Sardegna=La Sardegna Preistorica. Storia, materiali, monumenti, Carlo Delfino Editore, 2017, pp.179-202; F. Lo Schiavo, La metallurgia, dall’Età del Rame la Prima Età del Bronzo, in T. Cossu, C. Lugliè (eds.), La preistoria in Sardegna. Il tempo delle comunità umane dal X al II millennio a.C., Ilisso, Nuoro, 2020, pp. 395-399

[8] Catalogo Beni Culturali - Sardegna, https://catalogo.beniculturali.it/

[9] Catalogo Beni Culturali - Sardegna, https://catalogo.beniculturali.it/

[10] A. Moravetti, La cultura di Monte Claro e il Vaso Campaniforme, in Atti della XLIV riunione scientifica. La preistoria e la protostoria della Sardegna (Cagliari, Barumini, Sassari 23-28 novembre 2009), Volume I – Relazioni generali, Firenze, 2009, pp. 103-106; Fabio Nieddu, Il Campaniforme in Sardegna, in T. Cossu, C. Lugliè (eds.), La preistoria in Sardegna. Il tempo delle comunità umane dal X al II millennio a.C., Ilisso, Nuoro, 2020, pp. 373-381

[11] V. Santoni, La cultura del Bronzo Antico I – II in Sardegna, in Atti della XLIV riunione scientifica. La preistoria e la protostoria della Sardegna (Cagliari, Barumini, Sassari 23-28 novembre 2009), Volume I – Relazioni generali, Firenze, 2009, pp. 114-119 

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